Poesie Senigalliesi » Blog Archive » Pace dei Sensi
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Vi scorgo tra onde paonazze
Riflessi di luce corvina
E l’idea che siate un pò pazze
M’appare di prima mattina.

Poi l’sole s’eleva d’un palmo
Radioso, insicuro e distorto
Che tutto appare sì calmo
La pazzia diviene conforto

E quando arriva alla vetta
Sto lume rotondo e infuocato
Il corpo più non aspetta
La paura diventa boato

Un’orchestra in cor mi rintrona
La mente si svuota d’un ratto
L’incoscienza è ormai la padrona
E schiavo io sono del fatto

Il giorno diviene meriggio
E presto scompare l’abbaglio
L’uomo diventa più saggio
E veloce stacca il guinzaglio

Pellegrino ormai della vita
Inizio nel mondo a vagare
Ma senza sapere la meta
Domando il perchè del mio fare

Cosi una donna risponde
Quasi sul far della sera
I riflessi che vedevi nell’onde
Eran segni della cosa più vera

Non solo d’un gioco innocente
D’un corpo a dir poco perfetto
Ma l’abbraccio quasi innocente
Di chi sa donarti l’affetto

Daniele Quercetti

8 Responses to “Pace dei Sensi”

    originale e piena di ardore
    credevo trovare violenza e non so perchè
    ho scoperto passione e quasi mi trovo davanti ad un quadro impressionista
    ad un sogno che tra poco sarà realtà
    complimenti da un lettore di poesie.
    grazie-

    Disteso sul lettuccio, fuori dell’alone del lume a petro-
    lio, mentre fantasticava sulla propria vita, Giovanni Drogo
    invece fu preso improvvisamente dal sonno. E intanto,
    proprio quella notte – oh, se l’avesse saputo, forse non
    avrebbe avuto voglia di dormire – proprio quella notte co-
    minciava per lui l’irreparabile fuga del tempo.

    Fino allora egli era avanzato per la spensierata età della
    prima giovinezza, una strada che da bambini sembra infi-
    nita, dove gli anni scorrono lenti e con passo lieve, così che
    nessuno nota la loro partenza. Si cammina placidamente,
    guardandosi con curiosità attorno, non c’è proprio bisogno
    di affrettarsi, nessuno preme di dietro e nessuno ci aspetta,
    anche i compagni procedono senza pensieri, fermandosi
    spesso a scherzare. Dalle case, sulle porte, la gente grande
    saluta benigna, e fa cenno indicando l’orizzonte con sorrisi
    di intesa; così il cuore comincia a battere per eroici e teneri
    desideri, si assapora la vigilia delle cose meravigliose che si
    attendono più avanti; ancora non si vedono, no, ma è certo,
    assolutamente certo che un giorno ci arriveremo.

    Ancora molto? No, basta attraversare quel fiume laggiù
    in fondo, oltrepassare quelle verdi colline. O non si è per
    caso già arrivati? Non sono forse questi alberi, questi pra-
    ti, questa bianca casa quello che cercavamo? Per qualche
    istante si ha l’impressione di sì e ci si vorrebbe fermare.
    Poi si sente dire che il meglio è più avanti e si riprende
    senza affanno la strada.

    Così si continua il cammino in una attesa fiduciosa e le
    giornate sono lunghe e tranquille, il sole risplende alto nel
    cielo e sembra non abbia mai voglia di calare al tramonto.

    Ma a un certo punto, quasi istintivamente, ci si volta in-
    dietro e si vede che un cancello è stato sprangato alle spal-
    le nostre, chiudendo la via del ritorno. Allora si sente che
    qualche cosa è cambiato, il sole non sembra più immobile
    ma si sposta rapidamente, ahimè, non si fa tempo a fissar-
    lo che già precipita verso il fiume dell’orizzonte, ci si ac-
    corge che le nubi non ristagnano più nei golfi azzurri del
    cielo ma fuggono accavallandosi l’una sull’altra, tanto è il
    loro affanno; si capisce che il tempo passa e che la strada
    un giorno dovrà pur finire.

    Chiudono a un certo punto alle nostre spalle un pesante
    cancello, lo rinserrano con velocità fulminea e non si fa
    tempo a tornare. Ma Giovanni Drogo in quel momento dor-
    miva ignaro e sorrideva nel sonno come fanno i bambini.

    Passeranno dei giorni prima che Drogo capisca ciò che
    è successo. Sarà allora come un risveglio. Si guarderà at-
    torno incredulo; poi sentirà un trepestio di passi soprag-
    giungenti alle spalle, vedrà la gente, risvegliatasi prima di
    lui, che corre affannosa e lo sorpassa per arrivare in anti-
    cipo. Sentirà il battito del tempo scandire avidamente la
    vita. Non più alle finestre si affacceranno ridenti figure,
    ma volti immobili e indifferenti. E se lui domanderà quan-
    ta strada rimane, loro faranno sì ancora cenno all’orizzon-
    te, ma senza alcuna bontà e letizia. Intanto i compagni si
    perderanno di vista, qualcuno rimane indietro sfinito, un
    altro è fuggito innanzi, oramai non è più che un minusco-
    lo punto all’orizzonte.

    Dietro quel fiume – dirà la gente – ancora dieci chilometri
    e sarai arrivato. Invece non è mai finita, le giornate si fanno
    sempre più brevi, i compagni di viaggio più radi, alle fine-
    stre stanno apatiche figure pallide che scuotono il capo.

    Fino a che Drogo rimarrà completamente solo e al-
    l’orizzonte ecco la striscia di uno smisurato mare immobi-
    le, colore di piombo. Oramai sarà stanco, le case lungo la
    via avranno quasi tutte le finestre chiuse e le rare persone
    visibili gli risponderanno con un gesto sconsolato: il buo-
    no era indietro, molto indietro e lui ci è passato davanti
    senza sapere. Oh, è troppo tardi ormai per ritornare, die-
    tro a lui si amplia il rombo della moltitudine che lo segue,
    sospinta dalla stessa illusione, ma ancora invisibile sulla
    bianca strada deserta.

    Giovanni Drogo adesso dorme nell’interno della terza
    ridotta. Egli sogna e sorride. Per le ultime volte vengono a
    lui nella notte le dolci immagini di un mondo completa-
    mente felice. Guai se potesse vedere se stesso, come sarà
    un giorno, là dove la strada finisce, fermo sulla riva del
    mare di piombo, sotto un cielo grigio e uniforme e intorno
    né una casa né un uomo né un albero, neanche un filo
    d’erba, tutto così da immemorabile tempo.

    (Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari, VI)

    bravo Giuseppe,
    al solito quasi mi stupisco quando ti leggo
    ormai so sento che c’è sempre una gradita dotta sorpresa nei tuoi
    allora mi vengono a mente tante stranezze coincidenze di letture belle fatte chissà dove e quando in separata sede

    stavolta Buzzati che io conobbi ,in lettura s’intende,quando ancora andavo a scuola per merito del mio mai dimenticato preside a Senigallia Germano Turchetti.

    Arrivò anni molti anni dopo il film altra cosa evidentemente anche se girato ottimamente

    ma la lettura del deserto è stata per me la conoscenza apprendistato di ciò che era la fantasia irreale l’ante Kafka
    mi servì a prepararmi per ciò che fu il maestro ceco-

    Grazie Giuseppe anche per i risvegli che sempre mi doni.
    dario.

    Dario, il passo di Buzzati mi è stato suggerito da queste strofe:

    “Il giorno diviene meriggio

    E presto scompare l’abbaglio

    L’uomo diventa più saggio

    E veloce stacca il guinzaglio

    Pellegrino ormai della vita

    Inizio nel mondo a vagare

    Ma senza sapere la meta

    Domando il perchè del mio fare”;

    ero interessato a trovare il punto d’incrocio tra due direzioni
    poetico-narrative fortemente divergenti, allo scopo di mettere
    il più possibile in evidenza, per contrasto, il valore espressivo
    dei versi di Daniele Quercetti.

    Ciao e buona Pasqua,

    G.B.

    Amo-te tanto, meu amor… não cante

    O humano coração com mais verdade…

    Amo-te como amigo e como amante

    Numa sempre diversa realidade.

    Amo-te afim, de um calmo amor prestante

    E te amo além, presente na saudade.

    Amo-te, enfim, com grande liberdade

    Dentro da eternidade e a cada instante.

    (Vinicius De Moraes, “Soneto Do Amor Total”, I e II strofa)

    Ti amo tanto, amore mio… nessun cuore
    Umano canti con più sincerità…
    Ti amo come amico e come amante,
    Nel sempiterno divenire della realtà.

    Ti amo affianco, d’un amore sereno e forte,
    E t’amo lontana, presente alla mia nostalgia.
    Ti amo, infine, con grande libertà,
    Nell’eternità di ogni istante.

    (Traduzione libera di Giuseppe Bottazzi)

    Nota – Ho voluto forzare particolarmente la traduzione dell’ultimo verso, nell’intenzione di rendere in lingua italiana l’idea poetico-filosofica del rapporto tra coscienza e tempo, più volte ricorrente nei testi di Vinicius De Moraes: un’idea molto affine a quella di Sant’Agostino, il quale riconosceva all’«anima» la capacità di sintetizzare, nell’istante del qui-e-ora, il ricordo del passato, la coscienza del presente e l’aspettativa del futuro – realizzando in tal modo la propria natura metatemporale.

    G.B.

    “[...] la realtà-umana è il proprio superamento verso ciò che le manca,
    si supera verso l’essere particolare che sarebbe se fosse ciò che è. La
    realtà-umana non è qualcosa che esista subito, per mancare poi di
    questo o di quello: esiste subito come mancanza, e in unione sintetica
    immediata con ciò di cui manca. Così l’avvenimento puro per cui la
    realtà umana sorge come presenza al mondo è percezione di se stessa
    come PROPRIA MANCANZA. La realtà umana si percepisce come
    essere incompleto nella sua venuta all’esistenza. Essa si coglie come
    ciò che è in quanto non è, in presenza della totalità singolare di cui
    manca e che essa è in modo da non esserla, e che è ciò che è. La
    realtà umana è superamento continuo verso una coincidenza con
    se stessa che non è mai data.”

    Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla (Parigi 1943) – Seconda Parte (Traduzione di Giuseppe Del Bo)

    Posto nuovamente la citazione di Sartre, causa problemi di editing.

    G.B.

    “[...] la realtà-umana è il proprio superamento verso ciò che
    le manca, si supera verso l’essere particolare che sarebbe se
    fosse ciò che è. La realtà-umana non è qualcosa che esista
    subito, per mancare poi di questo o di quello: esiste subito
    come mancanza, e in unione sintetica immediata con ciò
    di cui manca. Così l’avvenimento puro per cui la
realtà umana
    sorge come presenza al mondo è percezione
    di se stessa come PROPRIA MANCANZA. La realtà umana
    si percepisce come essere incompleto nella sua venuta
    all’esistenza. Essa si coglie come ciò che è in quanto non è,
    in presenza della totalità singolare di cui manca e che
    essa è in modo da non esserla, e che è ciò che è.
    La
realtà umana è superamento continuo verso
    una coincidenza con se stessa che non è mai data.”

    Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla (Parigi 1943) –
    Seconda Parte (Traduzione di Giuseppe Del Bo)

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