Quando el sabatu sera
mi fiolu va in discuteca,
io sò sempre in pena
specialmente da quando,
ha cuminciatu andà lassù
‘nt la riviera rumagnola.
M’el ricorderò pr’tuta la vita
el turmentu dela prima volta,
quando l’ho vistu partì ala sera
e riturnà ala mattina.
Cume ‘na sunambula
e cul core in gola so’‘ndata in giru
pr’tuta la casa.
Chissà quante volte qula note
avrò guardatu l’urulogio
pareva ch’el tempu se fusse fermatu.
So’‘rmasta picigata ala finestra
pr’guasi tuta la nutata,
cun le rechie tese pronta a scatà
a ogni piculu rumore.
Ogni machina che sentivu ‘rivà
curevu a faciame ‘nt la lugeta
‘nt la speranza che da qula machina
a surtì fosse proprio lu’.
Dopu tantu tempu
me duvria esse ‘bituata
invece ancora so’sempre agitata,
certu nun sto più alzata finu all’alba ,
e se pr’casu me ‘riva‘na telefonata
da qualche cretì che se vole divertì ,
subitu me se mete a bate forte el core
e dala paura me pare de murì,
cuscì pr’tuta la note
nun riescu più a durmì .
Anche se so che mi fiolu.
è ‘n bravu ragazu e nun fa sciapate,
ma c’è sempre qualcunu in giru
che beve ‘n gocio de tropu
o che prende certe pastiche.
Dopu senza nemenu redese contu
comincia a fa’certe bravate
cuscì già trope vite
ene rimaste giò longu le strade.
Lasciando tanti genitori
murì de crepacuore.
E io solu quando finalmente
la porta de casa sentu uprì
sfinita ma cuntenta vagu a durmì,
ma prima ringrazio sempre Dio
d’avè riacumpagnatu a casa el fjolu mio!
Maria Pia Marchetti
Ἔστι μοι κάλα πάϊς, χρυσίοισιν ἀνθέμοισιν
ἐμφέρην ἔχοισα μόρφαν, Κλέις ἀγαπάτα,
ἀντί τᾶς ἔγω οὐδὲ Λυδίαν παῖσαν οὐδ’ ἐράνναν…
(Saffo – fr. 34 Perrotta-Gentili* [137 Diehl])
Ho una bella bambina, che assomiglia
ai fiori d’oro, Cleis adorata,
in cambio di lei né la Lidia adorata, né l’amata [Lesbo]
(Traduzione di Rosita Copioli)
[*Il frammento appartiene ad un carme, in cui la poetessa rivela tutta l'intensità del suo amore materno per la figlia Cleis]
Left by Giuseppe Bottazzi on aprile 5th, 2011
Già era scesa la piena notte. Drogo era seduto nella nuda
camera della ridotta e si era fatto portare carta, inchiostro
e penna per scrivere.
“Cara mamma” cominciò a scrivere e immediatamente
si sentì come quando era bambino. Solo, al lume di una
lanterna, mentre nessuno lo vedeva, nel cuore della For-
tezza a lui ignota, lontano dalla casa, da tutte le cose fami-
liari e buone, gli pareva una consolazione poter almeno
aprire completamente il suo cuore.
Certo, con gli altri, con i colleghi ufficiali, doveva farsi
vedere uomo, doveva ridere con loro e raccontare storie
spavalde di militari e di donne. A chi altri se non alla mam-
ma poteva dire la verità? e la verità di Drogo quella sera non
era una verità da bravo soldato, non era probabilmente de-
gna dell’austera Fortezza, i compagni ne avrebbero riso. La
verità era la stanchezza del viaggio, l’oppressione delle te-
tre mura, il sentirsi completamente solo.
“Sono arrivato sfinito dopo due giorni di strada” questo
le avrebbe scritto “e, arrivato, ho saputo che se volevo po-
tevo tornare in città. La Fortezza è malinconica, non ci so-
no paesi vicini, non c’è nessun divertimento e nessuna al-
legria”. Questo le avrebbe scritto.
Ma Drogo si ricordò della mamma, a quell’ora ella pensava
proprio a lui e si consolava all’idea che il figlio se la passasse
piacevolmente con simpatici amici, magari, chissà, in gentile
compagnia. Lei certo lo credeva soddisfatto e sereno.
“Cara mamma” la sua mano scrisse. “Sono arrivato l’al-
tro ieri dopo un ottimo viaggio. La Fortezza è grandio-
sa…” Oh, farle capire lo squallore di quelle mura, quell’a-
ria vaga di punizione ed esilio, quegli uomini stranieri ed
assurdi. Invece: “Gli ufficiali qui mi hanno accolto affet-
tuosamente” scriveva. “Anche l’aiutante maggiore in pri-
ma è stato molto gentile e mi ha lasciato completamente
libero di tornare in città se volevo. Eppure io…”
Forse in quel momento la mamma girava nella sua
stanza abbandonata, apriva un cassetto, metteva in ordine
i suoi vecchi vestiti, i libri, lo scrittoio; li aveva già
riordinati tante volte, ma le pareva così di ritrovare un po’
la viva presenza di lui, come se egli dovesse rincasare, al
solito, prima di pranzo. Gli pareva di udirlo, il noto rumo-
re dei suoi piccoli passi irrequieti che si sarebbero detti
sempre in ansia per qualcuno. Come avrebbe avuto il cuo-
re di amareggiarla? Se le fosse stato vicino, nella stessa
stanza, raccolti sotto il familiare lume, allora sì Giovanni
le avrebbe detto tutto e lei non avrebbe fatto in tempo a
contristarsi, perché lui le era accanto e il brutto era ormai
passato. Ma così da lontano, per lettera? Seduto accanto a
lei, dinanzi al camino, nella rassicurante tranquillità del-
l’antica casa, allora sì le avrebbe parlato del maggiore
Matti e delle sue insidiose blandizie, delle manie di Tronk!
le avrebbe detto come stupidamente avesse accettato di ri-
manere quattro mesi, e probabilmente entrambi ci avreb-
bero riso sopra. Ma come fare, così da lontano?
“Eppure io” Drogo scriveva “ho creduto bene per me e
per la carriera restare qualche tempo quassù… La compa-
gnia poi è molto simpatica, il servizio facile e non fatico-
so.” E la sua stanza, il rumore della cisterna, l’incontro col
capitano Ortiz e la desolata terra del nord? Non aveva da
spiegarle i ferrei regolamenti della guardia, la nuda ridot-
ta in cui si trovava? No, neppure con la mamma poteva es-
sere sincero, nemmeno a lei confessare gli oscuri timori
che non gli lasciavano pace.
(Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari – Cap. VI)
Left by Giuseppe Bottazzi on aprile 10th, 2011