Poesie Senigalliesi » Blog Archive » Se s’alzass’ i occhi al ciel’
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D’ nott’ ‘l ciel’ scur’,
schiarit’ dalla luna
e trafurat’ da l’ stell’,
poggia sopra i tetti.

‘Ndò ‘l buj(e) è più fitt’
s’ po’ tuccà sa ’n deta,
e sa ‘n zomp’ e ‘na manata,
tiral’ giù p’r terra.

Io l’ st(e)nd(e)ria ben, ben
p’r facc(e) tre l(e)nzoi:
un lenzol p’ l’ cuppiett’
ch’ parl’n sa la luna;
‘n antr’ ma i p(e)scatori
ch’ la nott’ vann’ in mar’

e ‘l terz’ ma i sugnatori
p’r fai capà ‘na stella,
ch’ sa ‘n po’ d’ fantasia
l’andrann’ a visità.

Da lassù v(e)dran’ la terra
e cuntaran’ i pr(e)putenti
ch’ machì enn’ ‘na mucchia
e fann’ sempr’ a cagnara.

Ch’ pac(e) nt’ st’ mond’
se n’ c’ foss’ st’ sfragell’!
Ma s’ alzass’ i occhi al ciel’
chi fa ‘l trist’ e ‘l rugantin’,
po’ darsi ch’ s’accorg(e)
ch’ anch’ lù è ‘n picculin’.

F. Patonico

Traduzione:
Se si alzassero gli occhi al cielo

Di notte il cielo scuro,
schiarito dalla luna
e traforato dalle stelle
si appoggia sopra i tetti.
Dove il buio è più fitto
si può toccare con un dito
e con un salto ed un colpo di mano
tirarlo giù in terra.
Io lo stenderei ben, bene
per farci tre lenzuola:
un lenzuolo per le coppiette
che parlano con la luna;
un altro ai pescatori
che la notte vanno in mare
e il terzo ai sognatori
per fargli scegliere una stella,
che con un po’ di fantasia
l’andranno a visitare.
Da lassù vedranno la terra
e conteranno i prepotenti
che qui sono molti
e litigano sempre.
Che pace in questo mondo
se non ci fosse questo flagello!
Ma se alzasse gli occhi al cielo,
chi fa il cattivo e l’arrogante
è probabile che si accorge
che anche lui è un piccolino.

One Response to “Se s’alzass’ i occhi al ciel’”

    “La scala era cosí erta, che Ciàula, con la testa protesa e schiacciata
    sotto il carico, pervenuto all’ultima svoltata, per quanto spingesse gli
    occhi a guardare in su, non poteva veder la buca che vaneggiava in
    alto.
    Curvo, quasi toccando con la fronte lo scalino che gli stava sopra, e
    su la cui lubricità la lumierina vacillante rifletteva appena un fioco
    lume sanguigno, egli veniva su, su, su, dal ventre della montagna,
    senza piacere, anzi pauroso della prossima liberazione. E non vede-
    va ancora la buca, che lassú lassú si apriva come un occhio chiaro,
    d’una deliziosa chiarità d’argento.
    Se ne accorse solo quando fu agli ultimi scalini. Dapprima, quan-
    tunque gli paresse strano, pensò che fossero gli estremi barlumi del
    giorno. Ma la chiaría cresceva, cresceva sempre piú, come se il so-
    le, che egli aveva pur visto tramontare, fosse rispuntato.
    Possibile?
    Restò – appena sbucato all’aperto – sbalordito. Il carico gli cadde
    dalle spalle. Sollevò un poco le braccia; aprí le mani nere in quella
    chiarità d’argento.
    Grande, placida, come in un fresco, luminoso oceano di silenzio, gli
    stava di faccia la Luna.
    Sí, egli sapeva, sapeva che cos’era; ma come tante cose si sanno, a cui
    non si è data mai importanza. E che poteva importare a Ciàula, che
    in cielo ci fosse la Luna?
    Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli
    la scopriva.
    Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, ec-
    cola, eccola là, la Luna… C’era la Luna! La Luna!
    E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran
    conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, là,
    mentr’ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, igna-
    ra dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che
    pure per lei non aveva piú paura, né si sentiva piú stanco, nella not-
    te ora piena del suo stupore.”

    (Luigi Pirandello – Novelle per un anno, “Ciàula scopre la Luna” [epilogo])

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