Poesie Senigalliesi » Blog Archive » La mia bandiera
Search

Bella nei colori
E distesa al vento,
tu brilli come l’arcobaleno.
I colori sono quelli della mia terra,
della mia libertà.
Libertà pagata con il sangue,
Il sangue dei mie padri
è per questo che sei fiera.

Ti ho sempre amato
E ti amo patria mia,
la Tua bandiera brilla nel mio cuore
sei la più bella che ci sia.

Per te lotterò,
darò la mia vita,
si, la mia vita
o bella Italia mia.

Gilberto Cavallari
Senigallia, 11.03.09

One Response to “La mia bandiera”

    VITTORIO EMANUELE II
    Vittorio Emanuele II è l’esatto contrario dell’imperatore dei francesi: è un sognatore,
    un uomo dotato di un fascino selvaggio, fantasioso e tendente all’eccesso.
    Nasce il 14 marzo 1820 a Torino, nel palazzo dei Savoia-Carignano. Il futuro re è il figlio
    primogenito di Carlo Alberto di Savoia principe di Carignano e di Maria Teresa
    d’Austria-Lorena figlia di Ferdinando III Granduca di Toscana. Al battesimo riceve i nomi
    di Vittorio Emanuele Maria Alberto Eugenio Ferdinando.
    L’educazione di Vittorio Emanuele II, secondo il suo biografo Francesco Cognasso,
    fu «indirizzata a dargli la più rigida coscienza dei doveri di un re assoluto devoto alla
    religione cattolica. Letture politiche non aveva sicuramente fatto neppure alla vigilia di salire
    al trono. Probabilmente egli distingueva soltanto la monarchia, l’ordine, dalla repubblica,
    il disordine».
    Non pare che Vittorio Emanuele II avesse il desiderio di informarsi attraverso i libri.
    Dopo il 23 marzo ne lesse pochi:
    non aveva tempo di leggere, diceva. Tipica è la frase detta a Massari a proposito del libro
    del profugo meridionale sui Casi di Napoli ricevuto in omaggio: «Non leggerò il vostro libro
    , ma so quello che vi è dentro!». Lesse però il Rinnovamento
    d’Italia di Gioberti. Egli aveva simpatia per il grande pensatore torinese, come questi ne
    provava per «il nostro giovane ed eroico re». Vittorio Emanuele II, a dispetto delle sue
    stravaganze, fu un re che piacque a tutte le corti europee.
    La regina Vittoria lo adorava. In Francia era amato non solo dall’imperatore ma anche dal
    popolo. Per i cugini d’oltralpe il re d’Italia era : «le modèle des souverains, le plus loyal et le
    meilleur des rois, le « galant homme » enfin, ainsi que l’a si bien nommé tout son peuple!».
    Con l’avvicinarsi dei 150 dell’unità d’Italia (1861-2011), di fatto, a lui, il re galantuomo,
    si riconosce pur sempre il merito di aver contribuito a fare del Regno di Sardegna lo
    Stato-guida del Risorgimento. Sia pure a modo suo (fra audaci disegni diplomatici, intrighi
    di corte e atteggiamenti spacconi), ma con un fiuto singolare nei riguardi degli uomini
    e delle circostanze. Giacché da un lato, finì per assecondare l’opera politica del non amato
    Cavour, ritenendo che fosse comunque l’unico in grado di tener testa a Mazzini e ai
    democratici, e di dare affidamento sia a Parigi che a Londra; e, dall’altro, lasciò mano libera
    a Garibaldi al compimento della spedizione dei Mille, da lui tacitamente appoggiata
    all’insaputa dei suoi ministri, nell’intento di cavalcare la rivoluzione nel Mezzogiorno e di
    riassorbirla nelle maglie della ragion di Stato. E dire che, a giudicar dalla sua formazione
    giovanile e dal suo temperamento, nulla lasciava presagire che quell’erede al trono, dai
    lineamenti plebei, con la passione unicamente per le armi e la caccia, sarebbe giunto ad
    agire con altrettanta abilità e risolutezza sulla scena politica: al punto di unificare l’intera
    penisola. Fu soprattutto durante la sua vita che il sovrano fu attaccato per le sue ataviche
    irregolarità: un biografo dell’Ottocento scrisse che il re era «nato per la guerra, la caccia e la
    donna, riempì dei suoi amori trent’anni di regno, visse per l’Italia e la fumna». Senza la
    fumna, diceva Vittorio Emanuele, non poteva vivere. Vedovo di Maria Adelaide, il re si
    innamorò di Rosa Vercellana, detta la Bela Rosin, ed ebbe avventure galanti con Laura Bon
    e Claudina Cucchi. La noncuranza del re ad avere relazioni, spesso concluse con una
    maternità, fu leggendaria. Gustavo Modena lo definì il re «Creapopoli», Niccolò Tommaseo,
    meno cortesemente, scrisse che la monarchia era una «bordelleria» che seminava figli
    bastardi ovunque. Il re galantuomo, costretto a convivere controvoglia con il regime statuario
    di Carlo Alberto, cercò di conservare le abitudini del sovrano assoluto almeno in un campo:
    quello delle avventure sentimentali, nel quale, forse, rivaleggiò solo con il suo ministro,
    il conte di Cavour, un altro obsédé sexuel. I contemporanei, che non risparmiarono le
    critiche al re cacciatore, riconobbero però in lui il coraggio, la spregiudicatezza e la
    temerarietà, l’orgoglio e la testardaggine. E furono proprio certe robuste attitudini del re a
    rivelarsi determinanti in alcuni momenti cruciali: dalla fermezza da lui dimostrata nel 1849
    nella difesa dell’onore del Regno contro i dettami del vincitore Radetzky dopo la disfatta di
    Novara, nonché dalla decisione di preservare lo Statuto e il regime parlamentare a onta delle
    forti pressioni di reazionari e clericali. Vittorio Emanuele aveva sempre temuto, fin dagli
    esordi del proprio regno, una svolta radicale («je vois que la republique est proche»), ma non
    per questo intendeva ripudiare il sistema costituzionale liberale, anche se avrebbe continuato
    a comportarsi nei rapporti con il Parlamento secondo una concezione rigidamente dinastica.
    E se aveva tergiversato a lungo prima di apporre la sua firma al progetto di legge sul
    matrimonio civile, ciò non era dipeso da una sua avversione alla laicità dello Stato. Le sue
    incertezze erano dovute alla preoccupazione di non rompere definitivamente con la Santa
    Sede e di non incorrere nella scomunica a carico suo e dell’intera dirigenza subalpina (come
    fatalmente accadde). L’alleanza antiaustriaca con la Francia di Napoleone III, che pose le
    basi del processo di unificazione nazionale, si deve attribuire a Cavour (sebbene il conte non
    pensasse di spingersi fino ad una simile meta). Tuttavia, se nel luglio 1858 venne raggiunta
    l’intesa di Plombières lo si dovette anche alla determinazione con cui Vittorio Emanuele
    aveva replicato alle dure relazioni francesi dopo l’attentato di Felice Orsini, che minacciava
    di mandare a monte i faticosi negoziati preliminari («ne faites pas l’imbécile, dites-lui tout
    cela», scrisse al suo aiutante di campo, il generale Della Rocca, in una lettera da mostrare a
    Napoleone III). Le frasi vivaci: «Non fate l’imbecille ecc.» furono scritte perché cadessero
    sotto gli occhi di Napoleone III e lo convincessero della sincerità e dell’energia del re e del
    suo governo. Nonostante gli attriti personali, Vittorio Emanuele e Cavour riuscirono a
    collaborare e non fu facile agire abilmente e d’accordo per calmare Napoleone III e
    conservarne l’amicizia. Inoltre, fu il re a reagire con più realismo di Cavour all’armistiio di
    Villafranca, nel luglio 1859 tra l’imperatore francese e Francesco Giuseppe, riconoscendo l’impossibilità per i piemontesi di proseguire da soli la guerra contro il colosso asburgico.
    La sua predilezione per certi spericolati maneggi dietro le quinte, che trovava eco nella prassi
    machiavellica di Napoleone III, lo portò a siglare un patto segreto in funzione antiprussiana
    con i francesi. Fu perciò un gran colpo di fortuna se la rapida sconfitta dei francesi nel 1870
    non solo evitò che il giovane Stato italiano ancora fragile si gettasse in un’avventura di
    guerra assai pericolosa, ma consentì inoltre l’acquisizione di Roma, sottraendola a Pio IX
    fino ad allora difeso soprattutto dagli chassepots di Parigi. «Les ministres passent, le roi
    reste», soleva dire Vittorio Emanuele. Dopo un quindicennio di governo della Destra
    postcavourina, egli avrebbe perciò registrato nel 1876 (due ani prima della sua morte)
    l’avvento al potere della Sinistra di Depretis e di Crispi senza scomporsi più di tanto, ma anzi
    con un certo sollievo per via della necessità di fronteggiare, insieme ala ripresa in forze dei
    clericali, i moti anarchici e i primi successi dei socialisti. «Sieno pure radicali – aveva detto
    dei nuovi governanti – ma che monta? Non ci sono forse io? Se fosse un ministero di
    cardinali, le cose non procederebbero diversamente». Il 9 gennaio 1878, Vittorio Emanuele II
    muore nel palazzo del Quirinale (da lui ritenuto – giustamente – nefasto) alle ore 14,35, a 57
    anni, 9 mesi e 26 giorni, avendo regnato 28 anni, 9 mesi e 18 giorni. Il re è sepolto nel
    Pantheon.

Something to say?