Essi avvengono fra gl’archi esistenziali,
si levano durante effetti quotidiani
di qualsivoglia morti e statici
canali diurni lavorativi.
Sono turbini fecondi ed idilliaci
di radenti preinvernali foglie
che si rincorrono susseguenti,
al passaggio ogni qualvolta
di basse soglie
e gomme in venti.
Sono profili leggiadri
di lontane vette d’appennini,
statuarie ed erette come dipinte
al di là dell’orizzonte
sopra curve e colline,
che mostrano ai miei sentimenti
le loro ombre di nascosti boschi
e di pendii netti e corrugati,
come eterne gote di monumenti
fra gl’aurei scorci panoramici
guardinghi alle valli
lì severi ed imperanti,
sotto trapuntate nubi
in rosolati appena impalpabili manti
impavidi e graziati.
Sono riflessi corposi di tango
nei sguscianti vividi arancioni tramonti
dietro le mie cocenti e impure spalle,
che verso retrovisori imprigionati specchi
mi salutano col ciglio limpido ma turbato
- dal velo calato di repentino -
da un cordolo d’iride sfumato a capolino.
In disciolta attesa d’un altro notturno stato
più sdraiato e senza tempo nel profondo;
riposo del giorno non più accavallato,
che nel momento
sarà privo di lampi
- in successione incatenati -
concernenti esecutivi operai corpi,
confinati tracciati
e sistematici atti d’impegni sofferenti
dai socchiusi pori
e abitudinari pallidi sguardi.
Carlo Federiconi