S’ pol’ duprà la penna o ‘l malepegg’,
cum’dà n ‘astrunav’ o n’frigurif’r’,
muntà n’uscilloscopi o n’calurif’r’,
i omi p’rò enn’ tutti uguaj p’r l’ scuregg’.
Nun è ch’ade machì s’ vol’ curegg’
ma’l gran’ Totò, artistigh’ e frutif’r’,
d’l rid’ e ‘l piagn’, agnul’ e Lucif’r’:
la livella è la mort, sci, nun vanegg’.
P’rò, ch’ magni la pernic’ o la sardella,
ch’ la fai dentra ‘l salott’ o a l’ustaria,
ch’ sia na loffia o sidonca rintrunant’,
com’ ch’ sia, la pesta è sempr’ quella.
Sal che diggh’: l’uguajnza s’ mustraria
senza b’sogn’ d’artruvass’ al camp’sant’.
Gigetto d’l Borgh’
Geniale…
Leggendo questo sonetto più volte, ho quasi rivissuto – grazie al sapore arcaico delle sonorità dialettali – la dimensione estetica della lettura dei “Sonnets” shakespeariani.
Trovo, infatti, che la scelta di questa forma poetica – abbinata appunto all’utilizzo del Dialetto Senigalliese – sia la più appropriata per trasmettere il contenuto “metafisico” dei versi: l’Autore indica sin da subito il Logos del proprio “sistema”; un Principio “fisico” sì, ma inteso come come trascendenza immanente alle cose stesse.
Ovviamente qui si tratta di un principio etico, per cui “l’ scuregg’” diviene quel Comun Denominatore dell’Umanità, capace – si badi bene – di ricondurla dallo “stato naturale” (in senso hobbesiano) – in cui tutti gli uomini sono resi diseguali dal bisogno di prevalere l’uno sull’altro – a quello “civile”, di ragione, di cui la coscienza collettiva “d’l’uguajanza” è una delle espressioni più alte.
Ma ciò che lascia veramente a bocca aperta, tuttavia, è l’uso “speculativo” dello humour, capace di penetrare, attraverso il gesto poetico, i recessi più profondi della natura umana.
G.B.
Left by Giuseppe Bottazzi on gennaio 10th, 2010